Qualche obiezione ad alcune proposte della Fondazione Promozione Sociale
Category : Sanità, assistenza, politiche sociali
Published by beppe on 29-Oct-2011 22:20
Chi visita il sito del GVA vede facilmente quanto rilievo venga dato alle proposte e alle analisi della Fondazione Promozione Sociale, che consideriamo un vero e proprio modello di come dovrebbe agire il volontariato. Questo però non vuol dire che si debba sempre essere d'accordo con loro.

Vengono qui esposte obiezioni ad alcune proposte presentate dalla Fondazione in vari documenti e in particolare nel numero 175 (luglio-settembre 2011) del periodico Prospettive assistenziali.

La prima (collocata nell'ambito di argomenti, per lo più molto validi, che contestano l'asserita mancanza di risorse per l'assistenza, indicando invece soluzioni per recuperarne) è quello della vendita dei beni pubblici per finanziare l'assistenza, specialmente ai non autosufficienti. Ma qui pare che si sottovaluti il fatto che i beni possono essere venduti una volta sola, e ciò che si ricava non è illimitato: una volta spese le risorse ottenute in questo modo, lo stato e gli enti locali si ritroverebbero senza soldi e senza beni. Se ci sono beni che non sono più di utilità alle finalità delle pubbliche amministrazioni, né possono essere adattati in tal senso, nessuna obiezione a venderli: ad esempio, potrebbe esserci un immobile che era utile per quello si faceva cento anni fa ma non per quello che si fa adesso, e adattarlo potrebbe comportare spese sproporzionate ai vantaggi. Ciò su cui è difficile essere d'accordo è la vendita dei beni pubblici come metodo generale, che rischia seriamente di essere un modo per svuotare la pubblica amministrazione di forse e risorse.

La seconda è quella secondo cui, come pare di capire, debbano essere esclusi da qualunque prestazione assistenziale tutti coloro che sono proprietari di immobili, anche solo della prima casa, identificati senz'altro come benestanti (sembra quasi che emerga una curiosa avversione verso i proprietari di immobili come tali). Mi pare che si dimentichi che ci sono molti lavoratori che hanno acquistato la casa in cui vivono, per lo più modesta, a forza di sacrifici, e approfittando di periodi in cui il mercato immobiliare non era certo ai livelli attuali, persone che è difficile definire tanto benestanti. Costoro, per aver diritto a prestazioni assistenziali, dovrebbero vendere la casa e consumare così in affitto buona parte del ricavato, e spesso questo vorrebbe dire passare da una condizione economica modesta alla miseria. Non sembra una buona strategia pretendere che la gente si riduca alla miseria prima di poter avere qualunque forma di assistenza, anzi ridurre l'assistenza ai casi più estremi è una delle forme più insidiose di svuotamento dello stato sociale: se stai per morire di fame ti diamo da mangiare, se però hai fame ma non stai ancora per morire ti aggiusti. In questo modo si soccorre una piccola fascia di casi estremi e si permette un impoverimento molto più generalizzato.

Ovviamente nessuna obiezione a considerare il possesso della prima casa tra i parametri per graduare le prestazioni e il livello di compartecipazione alla spesa, così come è ovvio che la proprietà di immobili diversi dalla prima casa debba essere diversamente valutata.

Appare singolare trovare su un periodico come Prospettive assistenziali questi argomenti che sembrano propri piuttosto della destra liberista.