Lo stato sociale e il ruolo del volontariato
Category : Sanità, assistenza, politiche sociali
Published by beppe on 27-Dec-2008 11:20
LO STATO SOCIALE E IL RUOLO DEL VOLONTARIATO

Quando si parla dei compiti e dell'utilità del volontariato nel momento attuale, con riferimento ai problemi delle fasce deboli ed emarginate della società, spesso si fa anche riferimento allo stato sociale, per lodarlo, rimpiangerlo, esecrarlo ...


Vogliamo dunque chiederci che cosa sia precisamente lo stato sociale e in quale rapporto stia con il volontariato. Si potrebbe dire che l'idea fondamentale dello stato sociale sia quella della redistribuzione del reddito attuata dallo stato per massimizzare il benessere collettivo, nel senso di rendere massimo il benessere per il maggior numero possibile di persone, e non solo per pochi, ed in particolare a vantaggio di coloro che - senza questi interventi - avrebbero un tenore di vita giudicato eccessivamente basso. In questo senso, lo stato sociale non si identifica semplicemente con uno stato che garantisce alcune prestazioni previdenziali e sanitarie. Ad esempio,alcuni osservano che attualmente le prestazioni fornite dalle strutture pubbliche non corrispondono alle tasse e ai contributi che si pagano: ma nello stato sociale questa corrispondenza deve valere solo tra l'insieme di ciò che si paga e l'insieme dei servizi prestati, non per ogni singolo cittadino: è implicito nell'idea di redistribuzione del reddito che alcuni, avendone la possibilità, paghino più di quello che ricevono ed altri paghino meno (altrimenti tanto varrebbe ricorrere ad assicurazioni private, ciascuno secondo le proprie possibilità; ed infatti quelli che avanzano simili proposte si propongono precisamente di sopprimere lo stato sociale).

Altri invece sembrano identificare l'intervento sociale dello stato con l'intervento sulle situazioni di emergenza, di estrema miseria ed emarginazione: questa però è solo una parte dell'ambito di applicazione dello stato sociale, che si propone di migliorare il benessere collettivo nel suo insieme e non solo di sovvenire alle necessità gravissime ed estreme.


Si potrebbe dire, anche se esagerando un poco, che Italia lo stato sociale non sia propriamente stato mai attuato: è stato attuato piuttosto
qualche cosa che gli assomiglia in alcune conseguenze positive, accompagnate da molte negative; si dovrebbe parlare di uno stato
assistenziale che ha distribuito ricchezza in modo inefficiente, mal gestito e male amministrato, con poco riguardo ai bisogni autentici e
molto agli interessi clientelari. Del resto in Italia sono mancate le due condizioni fondamentali per la realizzazione di un vero e proprio stato
sociale: un sistema fiscale rigoroso e fondato sulla progressività e un apparato politico e amministrativo di alto livello. Invece in Italia si
riscontra un sistema fiscale disordinato ed inefficiente (voluto tale da coloro che vivono dei voti degli evasori) e con un eccessivo peso delle imposte indirette (più facili da riscuotere ma pagate nella stessa misura da ricchi e poveri) rispetto a quelle dirette, ed un apparato politico ed
amministrativo incapace, corrotto e sprecone. D'altra parte non sono certamente mancate le categorie sociali e le forze politiche (molto
facilmente identificabili) che hanno operato avendo esattamente compreso il punto focale dello stato sociale, la redistribuzione del reddito, e
proprio questo non hanno mai perdonato e hanno cercato di ostacolare o di distorcere, e tuttora cercano di distruggere anche quanto è stato
realizzato di conforme all'autentico modello di stato sociale.


Ma in che cosa tutto ciò tocca il volontariato ? In questo, che il volontariato viene a contatto proprio con quell'area di disagio sociale,emarginazione e bisogno che lo stato sociale vorrebbe abolire o almeno limitare il più possibile. Perciò in un momento in cui questo modello di stato viene attaccato e si tenta di sopprimerlo del tutto, davanti al volontariato si aprono diversi possibili tipi di comportamento, che potremmo però suddividere in due categorie principali, che chiamiamo gestione e promozione.


Secondo il modello della gestione il volontariato deve soprattutto estire dei servizi, o in proprio o in convenzione con enti pubblici (scelta spesso quasi obbligata se si vuole estendere i servizi oltre certi limiti) per sovvenire ai bisogni delle fasce deboli della società. In questo modo il volontariato svolge una grande quantità di interventi in favore di persone in difficoltà riempiendo spazi da cui il settore pubblico si ritrae o per impossibilità o per scelta politica, e pertanto se da una parte fa del bene a molti singoli non mette in discussione le politiche di soppressione dello stato sociali, ma anzi in certa misura vi si inserisce; anzi, tende a gestire servizi (magari ottimi) e cercare finanziamenti pubblici o privati nello stesso tempo rinunciare a qualsiasi tipo di intervento propositivo (fare tanto e stare ben zitti...), e rischia persino di ridursi a una sorta di sottobosco clientelare.


Secondo il modello della promozione il volontariato non deve necessariamente rinunciare a gestire direttamente dei servizi (cosa che
sarebbe sconsigliabile per diversi motivi), ma deve considerarsi soprattutto una forza che, mantendendosi indipendente e ben distinta
dagli organi politici e amministrativi, aspira a incidere sulla situazione sociale proprio nell'interesse dei settori più deboli e meno
tutelati, svolgendo attività che vanno dalla ricerca, alla proposta fino alla provocazione e allo scontro. Quindi il volontariato non deve fare
opere buone e tacere; anzi, il parlare è proprio una delle sue opere buone: non però parlare a vanvera, a forza di slogan o di astratte
enunciazioni moralistiche, ma sulla base dello studio, della ricerca, della documentazione.


Come si vede, vi sono diversi modi di concepire il volontariato, e dovrebbe anche essere chiaro qual è quello preferito dall'autore di questo articolo, il quale però non pretende certamente che tutti i lettori e neppure tutti i soci del GVA la pensino come lui per essere degni di avere a che fare con il volontariato. Tuttavia si aspetta che almeno essi dedichino qualche momento a riflettere su questi
problemi e che la discussione sull'argomenti si sviluppi sia all'interno dell'Associazione sia tra tutti coloro che hanno rapporti con il mondo
del volontariato.


Ma intanto il tempo trascorso dalla prima stesura di questo testo (ottobre 1994) ha dato occasione a molte riflessioni ed approfondimenti,
e gli sviluppi della situazione impongono nuove considerazioni.


Soprattutto, è necessario aggiungere considerazioni sulla natura e sul destino dello stato sociale. Risulta innanzitutto evidente che le
principali variabili da cui dipende il funzionamento e la stessa ussistenza dello stato sociale sono, sotto il profilo economico, l'imposizione fiscale ed il debito pubblico. Infatti l'imposizione fiscale è lo strumento principale di redistribuzione della ricchezza, vero e proprio oggetto dello stato sociale. Ma se il gettito fiscale non è sufficiente a raggiungere gli obiettivi di benessere collettivo che ci si propone, si può supplire per mezzo del debito pubblico.


Ora, è evidente che imposizione fiscale e debito pubblico non possono crescere all'infinito: il problema è quale livello di questi parametri si ritiene accettabile o, per essere più precisi, quale livello di priorità viene dato di volta in volta a mantenimento dello stato sociale, riduzione dell'imposizione fiscale, riduzione del debito pubblico. E qui si fa presto ad osservare che, se si considera prioritario lo stato sociale, non pare che vi siano particolari obiezioni a mantenere un livello elevato di imposizione fiscale (qui ciò che salva da
conseguenze insostenibili è la progressività, che assicura che la maggiore pressione gravi su chi la può sostenere) e una certa quantità
di debito pubblico: un concetto che occorrerebbe riscoprire è che il debito pubblico non è necessariamente un male, purché, si capisce, non
sia fuori controllo o governato con criteri estranei all'interesse collettivo.


Naturalmente questa concezione è agli antipodi di quasi tutte le idee oggi di moda: liberalismo, mercato, privato, decentramento, federalismo.
Invece lo stato sociale presuppone un fortissimo intervento pubblico, statale, nella societa' e nell'economia, anzi possiamo dire che si associa meglio a statalismo, centralismo e pianificazione, che non a mercato, privato e federalismo.


Certamente oggi la situazione dello stato sociale è difficile: le categorie imprenditoriali, che non lo hanno mai digerito, sono all'attacco e guadagnano terreno ogni giorno di piu'; queste categorie, che sono una minoranza della popolazione, sembrano le uniche la cui voce è in grado di influenzare parlamenti e governi cosiddetti democratici.


L'unico punto di vista che viene assunto è quello del mercato: ne fanno le spese non solo le categorie più deboli - destinatarie di interventi
di tipo più o meno assistenziale - ma anche i lavoratori e la classe media. Sono sempre più frequenti le voci che affermano che per reggere la concorrenza dei paesi asiatici di nuova industrializzazione bisogna peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori occidentali: a nessuno viene in mente che si potrebbe ottenere lo stesso risultato migliorando le condizioni dei lavoratori asiatici (per la verità, è venuto in mente ai lavoratori sudcoreani, che alcuni anni fa, con grandi lotte, ottennero miglioramenti economici significativi, tanto che alcune multinazionali spostarono altrove produzioni a bassa tecnologia; questo almeno secondo notizie che ho letto in varie pubblicazioni).


Viene negata ogni idea di uguaglianza e di redistribuzione della ricchezza, mentre si affermano la forza ed il privilegio. Esempio evidente di questa tendenza sono gli arroganti attacchi condotti in questi giorni [riferito al marzo 1996] proprio contro il prelievo fiscale da parte di chi già le yasse non le paga, cioè i commercianti e gli artigiani, fino alla serrata del 25 marzo, spudorata difesa del privilegio e dell'evasione
fiscale, cui gli imbelli sindacati non sono neppure in grado di rispondere con lo sciopero generale.


Se queste tendenze non verranno fermate, possiamo aspettarci sempre più disuguaglianze nella distribuzione del reddito, aumento della povertà,
peggioramento dei salari reali, degrado dei servizi pubblici (istruzione, sanità, assistenza, trasporti ...) a vantaggio di quelli privati per chi può pagare.


Il rischio del volontariato, in questo contesto, è di diventare complice, anche se in buona fede, di queste trasformazioni negative, affrettandosi a fornire propri servizi a coloro che via via non trovano nei servizi pubblici risposta ai loro bisogni. La questione qui non è se il volontariato debba o no gestire direttamente servizi assistenziali (io non dubito che debba fare anche questo, almeno in linea generale),
ma e' come puo' continuare a fare questo senza contribuire a minare lo stato sociale, vera tutela delle categorie deboli, e anzi come può
difenderlo ora che sempre meno lo difendono.


Qualcuno dei lettori di questo scritto potrà forse contribuire a trovare risposte a queste domande ?

24.3.1996

AGGIUNTA: le previsioni di questo scritto sono state puntualmente confermate, e per il resto sembra scritto oggi (1.2.2008).


Beppe Pavoletti